Mai come in questo periodo, in cui il dilagare della pandemia del Coronavirus con le sue varianti ha messo in evidenza la morte, siamo sollecitati maggiormente ad interrogarci sulla fine dell’esistenza terrena. Il tentativo di risposta ci porterà a dare un significato alla nostra finitudine e a trovarne la luce piena nel Figlio di Dio, che ha condiviso fino in fondo la nostra vicenda umana diventando uomo. Partiamo dal fatto che ogni vita umana ha un inizio e ha una fine, con uno sviluppo più o meno lungo. Tendenzialmente nel Nord del Mondo si è portati a nascondere la fine dell’esistenza, a rimuoverla e a lasciarla gestire dalle strutture sanitarie e funerarie. Nel Sud del Mondo, là dove la vita è una lotta continua per la povertà, per le malattie e per le guerre, la morte è continuamente presente e fa parte direttamente della vita. Poniamoci la domanda fondamentale: che cosa è esattamente la fine della vita terrena? È il punto finale dell’esistenza umana o è piuttosto un passaggio in qualcosa di diverso. È forse un nuovo inizio? Molte tradizioni religiose, specialmente il Cristianesimo, hanno indicato la morte non come la fine, ma come un fine: un traguardo, una rinascita. La fine della vita non tanto come un punto finale, ma come un passaggio verso qualcosa di nuovo.

Si tratta di riscoprire le pratiche spirituali dell’Ars moriendi cristiana, partendo dal significato della fine della vita come ingresso nella comunione totale con Gesù Cristo, diventando così Ars vivendi. Sappiamo che l’Ars moriendi, che è una preparazione a morire bene, si è sviluppata con documenti articolati soprattutto dopo la peste che colpì l’Europa all’inizio del XIV secolo e di quelli successivi, specialmente del XVII. Il contenuto della buona morte cristiana parte già dalla vicenda del buon ladrone, che muore insieme a Gesù (cfr. Luca 23,39-43) e poi successivamente si articola con le indicazioni per il superamento delle tentazioni del Demonio e con la protezione degli Angeli, della Vergine Maria, dei Santi e soprattutto della Trinità. In una società postmoderna e soprattutto illuminata dalla teologia del Concilio Vaticano II, siamo sollecitati a riformulare l’antica Ars moriendi, determinata da una visione dualistica del bene e del male, in una visione antropologica cristiana più unitaria, partendo dall’esigenza di favorire l’interiorità di ciascuno di noi (silenzio, ascolto della sacra Scrittura, meditazione, ritiri spirituali…), che porta a:

1 – Riscoprire la propria identità, sia personale che comunitaria: con il Battesimo, siamo stati liberati dal peccato e siamo diventati figli di Dio, vivendo la vita eterna del “già” nella Chiesa e del “non ancora” con Paradiso/Inferno, con la Risurezzione dei Corpi, la Gerusalemme Celeste e Cieli Nuovi e Terra Nuova.
2 – Vivere il limite umano, la malattia e la sofferenza non in una logica masochistica, ma in una dinamica di donazione, utilizzando le cure mediche fino a quelle palliative e soprattutto partecipando alle sofferenze di Cristo e con Lui, nel suo mistero di passione, morte e risurrezione, salvare l’Umanità.
3 – Fare testamento, trasmettere quello che abbiamo intuito e vissuto come memoria e consegna alla comunità cristiana e sociale, sulla scia di quella che Gesù ha dato ai suoi discepoli, pregando Dio Padre e Figlio e Spirito Santo perché il nostro ultimo respiro sulla terra sia come il canto del Cigno.

Accogliere e attuare queste indicazioni significa trasformare l’Ars moriendi in Ars vivendi. In questa ottica pensare la morte ci aiuta vivere ogni istante della vita terrena come la grande e unica occasione per rispondere al dono grande che ci è continuamente dato dal Dio Trinitario. È un andare ogni giorno verso la pienezza: qui sta il segreto della vera riuscita della nostra esistenza e della vera felicità.

don Franco Cecchin, 6 gennaio 2022